Il piccolo nacque nella tarda sera della domenica del 26 settembre 1897 mancavano pochi minuti alle ventidue. Il sole era entrato da pochi giorni nel cerchio zodiacale della Bilancia.
Intorno alla casa correva il profumo della vendemmia, il tram sferragliava lento sbuffando fumo nero nel suo viaggio quotidiano lungo la valle, nelle osterie fumose gli uomini giocavano a carte, ma in casa Montini ogni rumore fu affievolito dai vagiti del neonato e dalle voci concitate della comare e delle cameriere che rimiravano il bimbo e lo avvolgevano con cura nelle fasce fresche di bucato. Quattro giorni dopo Giovanni Battista fu battezzato nella chiesa della Pieve. Se l’arciprete don Giovanni Fiorni bagnando la fronte del bimbo con l’acqua benedetta cercò di immaginarne il futuro, non venne di certo sfiorato dal pensiero che quel bambino dall’aspetto gracile avrebbe lasciato una traccia indelebile nel mondo cattolico.
Quando Giorgio Montini iniziò a dedicarsi alla costruzione del monumento al Redentore Lodovico aveva tre anni Battista appena due e, pur in tenera età, seguirono la lunga e tribolata avventura del padre nel portare sulla montagna il segno cristiano. Nei mesi dell’estate padre e figli si trasferivano a Pezzoro il paesino arroccato ai piedi del Guglielmo da dove seguire i lavori era più agevole.
Nel lento tragitto da Concesio a Tavernole, dai finestrini del tram, i bambini im ararono a riconoscere le coltivazioni della fertile Campagna dove il granoturco si mescolava ai gelsi. Il padre spiegava loro che le foglie nutrivano i bachi da seta allevati sui “caaler” e poi venduti alle filande; quando lungo le rive del Mella apparivano le urandi fabbriche (re Trafilerie, la Glisenti, la Redaelli e la p. Beretta) insegnava loro che l’acqua del fiume si trasformava nell’ energia elettrica che muoveva le macchine per tessere il cotone e per forgiare il ferro.
Superato il forno fusorio di Tavernole il tram fermava la sua corsa e per Giorgio e i suoi figli iniziava la lunga camminata fino a Pezzoro: sette chilometri di marcia lungo la ripida mulattiera che si inerpicava fra i boschi e i prati macchiati di ciclamini dove risuonavano i campanacci delle mucche al pascolo. Toccava al mulo rassegnato alla sua atavica fatica portare sul dorso i bagagli e i bambini quando nei tratti più faticosi, davano segni di stanchezza.
Passando per Pezzaze Giorgio indicava ai figli le bocche scavate nella montagna, decine e decine di cunicoli che avevano un nome come i prati (Paulino, Campo Longo, Vaiadosso, Schiopetto, Pagherino. Medelino, Belvedere). Parlava loro della fatica quotidiana dentro le gallerie scavate da tempi immemorabili, della polvere di silice che faceva ammalare i polmoni, dell’umidità che penetrava nelle ossa. Spiegava loro che nei Il medali Il ogni minatore erodeva la roccia trascinandosi appresso legato con una fune, un catino di legno dentro cui deponeva il minerale, poi riversava i frammenti di minerale nelle ceste che i verricelli portavano in superficie.