Il piccolo Battista venne a sapere dal padre che i bambini, più minuti, venivano calati nei cunicoli più stretti e imparavano, fin dai primi anni di vita, il nero lavoro dei padri. Apprese che nel forno fusorio di Tavernole il ferro scavato dalle miniere veniva trasformato in ghisa in un ciclo che Francesco Glisenti aveva reso completo. L’industriale valtrumplino lo aveva acquistato nel 1874 proprio per completare il ciclo di lavorazione del ferro che veniva estratto nella miniera che portava il nome del figlio Alfredo.
Dopo la sosta a Tavernole dove il minerale veniva trasformato in ghisa la dura lega saliva sui binari del tram fino agli stabilimenti di Villa Carcina dove centinaia di operai la tramutavano in manufatti.
A Pezzoro l’albergo di Emanuele Dancelli apriva loro le porte, la piccola comunità il suo cuore. Quei signori di città così gentili erano benvoluti da tutti. Giorgio aveva modi gentili e affabili. Tutti sapevano che era un uomo importante, l’avvocato, il direttore di un giornale che nessuno, o quasi, sapeva leggere. Lassù non c’erano scuole, non serviva saper leggere nè scrivere per fare i pastori o i contadini.
Correva voce che in quel paesino si fosse trovato l’elisir di lunga vita, che l’aria sana e balsamica della valle regalasse una salute di ferro ai suoi abitanti. Erano infatti in molti ad oltrepassare la soglia degli ottant’ anni senza aver mai visto una sola volta il medico che se ne poteva stare tranquillo nella sua casa di Lavone.
Paese felice che nell’antico come nel presente potè sempre vantare l’invidiabile primato della longevità dei suoi abitanti, delle rarissime morti, tanto che in una monografia del 1849 compilata da uno studioso bresciano, il prof. Gallia, Pezzoro meritò la grande qualifica di “paese dove manco si muore”, scriveva Damaso Riccioni il 13 dicembre 1931 sul Cittadino: “Strane e gradevoli sensazioni carezzano il visitatore se dal sagrato dell’unica chiesolina – ottimo balcone belvedere – si indugia a tracciare con lo sguardo rette immaginarie, dalla cima Pergola alle lontane Colombine, o dal costone di Pradalonga ai contrafforti del Guglielmo, o dal minuscolo campanile al gruppo di case sdraiate nel morbido pendio.
Se tu brami serenità e pace l’aria e la terra quassù ne distribuiscono in così grande copia da renderti molesto solo il pensiero del ritorno agli affanni cittadini” .
Il paese, poche case fiorite di garofani, era luogo di villeggiatura per quanti cercavano la pace. Quasi ogni casa disponeva di una o più camere per i villeggianti, intorno, nelle strade, l’ordine e la pulizia invitavano a restare a lungo.
Il signor Dancelli con il suo alambicco distillava l’acquavite di genziana, “un’amara vampata di fuoco che investe il sangue e le fibre mentre lo stomaco recalcitrante sussulta e si scuote sotto la bruciante e inesorabile carezza del liquido. Il sapore ha curiose e lontane parentele con le tuberose e l’odore con l’acido formico; dall’insieme scaturisce a tutta prima un non so che di non troppo attraente, e poi invece gradevole tonico quasi stimolante massaggio generale dal palato all’ intestino”.
In qualche casa c’erano ancora telai per la tessitura della stoffa liscia in cotone, del lino e della canapa che le nonne avevano iniziato a tessere all’inizio dell’Ottocento, mentre altre con l’abilità che veniva da ore e ore di lavoro confezionavano fasce per neonato. In questo paesino Lodovico e Battista imparano ad amare la vita dura e semplice della campagna e della pastorizia, a riconoscere il colore delle stagioni, dell’ alba e del tramonto, ad inebriarsi della luce della luna piena, ad ascoltare il fruscio dei boschi. Lungo i sentieri verso il Gugliemo conobbero la fatica e insieme il senso mistico delle ascensioni. Excelsior. In alto, sempre più in alto.
Giorgio Montini chiedeva ai montanari quali erano i pericoli della montagna, con loro saliva fino al rifugio Almici per rendersi conto delle difficoltà che la costruzione della cappella avrebbe richiesto. Il piccolo Battista ascoltava il padre che gli parlava dell’inno al Redentore che stava per sorgere sull’alta vetta, percepiva il grande entusiasmo religioso che lo spingeva a cimentarsi in una fatica dove il divino trascendeva l’umano. Dapprima Giorgio Montini pensò ad una grande croce in ferro, poi invece nella sua mente prese corpo l’idea di costruire una cappella dove celebrare la messa per i fedeli che arrivavano lassù, ne parlò con l’architetto Carlo Melchiotti che fece il progetto e ne curò la realizzazione. Furono tre anni di intenso lavoro. In quei tre anni, infaticabile, Giorgio Montini, salì più volte verso la vetta della montagna. Da Pezzoro si incamminava lungo il sentiero che lo portava fino ai piedi del ripido e cespuglioso “ratù” nel versante nord del monte, poi discendeva a valle lungo il versante opposto e si beava degli scorci che, nelle giornate serene, elargisce il lago di Iseo.
Non sempre le donne lo seguivano, Giuditta era in attesa di Francesco (nascerà il 22 settembre), Lodovico aveva quattro anni e Battista solo tre, restavano ad aspettarlo nelle case di campagna, all’inizio estate in quella di Concesio, a fine estate in quella di Verolavecchia. Quell’anno le aveva lasciate al Dosso.