Quando nel 1963 i giornali e la televisione annunciarono che Giovanni Battista Montini aveva preso il posto di Papa Roncalli con il nome di Paolo VI la notizia corse in tutte le case valtrumpline. I vecchi di Pezzoro si ricordarono di quel bambino di pochi anni che d’estate trascorreva le vacanze all’albergo Dancelli e seguiva il padre fin sul Guglielmo. Chi gli aveva parlato, chi lo aveva portato sulle spalle fino alla vetta della montagna, come aveva fatto Giacinto Contrini, provarono un’ emozione particolare, come se una piccola parte di loro fosse partecipe di quell’evento.Anche i minatori si ricordarono del cardinale dall’ aria austera e dal cuore pieno di umana comprensione verso un lavoro fatto di fatiche inenarrabili, e per qualche giorno la cantilena dei ricordi riempì le case.
Con il passare degli anni il monumento al Redentore cedette all’azione corrosiva del tempo e ai colpi, molto spesso violenti, dei fulmini e della pioggia. La croce in ferro crollò e agli escursionisti arrivati lassù la cappella cominciò a mostrare un aspetto deturpato.
Quando il Papa venne a sapere che il simbolo della cristianità portato da suo padre sulla montagna bresciana non aveva retto alla forza distruttiva del tempo espresse il desiderio di ricostruirlo. Non poteva restare indifferente davanti alla distruzione del simbolo cristiano che suo padre aveva pensato eterno. Il ricordo di quei giorni lontani, la caparbia lotta del padre e dei muratori nell’affrontare l’asprezza dei luoghi, la fatica dei muli costretti a suon di frustate a trasportare pesanti pietre e quintali di cemento lo spinsero a sostenere l’operazione.
Il desiderio del Papa fece nascere un Comitato che portò i sindaci e i parroci dei territori “proprietari” della montagna (Zone, Marone, Gardone Valtrompia, Marcheno, Tavernole, Pezzaze, il parroco di Zone e il presidente dell’ Opera nazionale chiesette alpine) a riunire le loro forze per far risorgere quello che era diventato il simbolo della montagna. E dalla Val Trompia al lago d’Iseo si creò un anello di unità d’intenti.
Raul Franchi guidava il piccolo comune di Zone adagiato ai piedi del Guglielmo. Non ci mise molto tempo a convincere l’ assessore ai Lavori pubblici Giovanbattista Bordiga che il Redentore andava ricostruito. Accanto a loro si mise al lavoro, instancabile, monsignor Francesco Bertoli. Aveva un aaspetto pacioso che lo faceva rassomigliare in modo particolare al Papa Roncalli e quest’ aria buona piacque al colonnello Power, capo della compagnia deII’l aviazione americana Setaf di Vicenza, al quale il prete andò a chiedere di trasportare con gli elicotteri il cemento e il ferro sulla vetta della montagna bresciana.
Il comando dell’aviazione americana incaricò il maggiore Zugswert di guidare i piloti della Compagnia statunitense (capitano Britton. capitano Danilov, mr. Cathey, mr. Willianls, mr. Dye, mr. Jones) nella cosidetta Operazione monte Guglielmo. Ogni giorno due elicotteri decollavano da Marcheno per trasportare materiale, mentre i muratori lavoravano sodo per riportar Ia cappella alla sua forma originaria.
Martino Salvalai, suo fratello Noè, Delfino Sina e suo fratello Aldo, Filippo Zatti, Fausto Bazzana erano tornati da poco dalla Germania. Erano partiti vent’ anni prima con la loro valigia di legno per andare a fare i muratori nei cantieri della Foresta Nera, insieme a centinaia di altri emigranti che come loro avevano lasciato moglie e figli per guadagnarsi da vivere in una terra straniera. Erano tornati da qualche anno. richiamati dal boom economico, quando in paese cominciò a circolare la voce che il Papa voleva far ricostruire il Redentore.
Abituati com’erano a stare lontani da casa i sei uomini non ci pensarono due volte a partire per la montagna, contenti di soddisfare la richiesta del loro parroco che si andava prodigando perché il monumento fosse ricostruito da mani esperte che ne potessero fermare l’usura per lungo tempo.
Era il 20 aprile del 1966 quando, zaino in spalla, i sei uomini lasciarono il loro paese e si incamminarono fino alla vetta della montagna. Se ne stavano lassù a duemila metri di altitudine dal lunedi fino al sabato pomeriggio, quando riprendevano la strada verso casa. Lavoravano per dieci ore al giorno e anche più se era necessario, come riparo per la notte si erano costruiti una baracca.